mercoledì, dicembre 27, 2006

Dejà vu B-Side

Gli respirava accanto. Semplicemente gli respirava accanto. Amava guardare le persone dormire, osservarne i moti impercettibili del volto, contarne le ciglia e respirarne il respiro caldo. Dormiva spesso con lui ed aspettava pazientemente che si addormentasse per spiarlo. Era il solo modo per guardarlo davvero. Con occhi sbarrati, si immergeva furtiva nel suo viso. Bisogna che lo guardi ora più che posso- pensava- una volta sveglio non potrò più. Mai guardare negli occhi qualcuno, mai dare in pasto la propria anima. E’ indelicato. Era un insegnamento di sua nonna, e come tale, era sacro. Ed intanto lasciava che lo sguardo scivolasse tra i lineamenti del suo volto infinito, privo di pensieri, ignaro. Colpevole di innocenza. Nell’immobilità più assoluta cercava di ricordare la sensazione del “brivido” ma tutto in quella stanza restava maledettamente caldo e fermo. Neppure i rumori della città potevano aiutarla: era bloccata in quell’istante ed ebbe paura che lo sarebbe rimasta ancora troppo a lungo. Bloccarsi troppo a lungo in un istante è sempre pericoloso per chi ha qualcosa da dimenticare. Andrea. Lui si chiama Andrea. L’aveva raccolta da poco come un uccellino con l’ala spezzata e l’aveva curata dedicandole miele, sguardi dolci ed attenzioni. Le avrebbe regalato una rosa di carta l’indomani al risveglio. Una rosa di carta per reinsegnarle ad amare i fiori - lei, che i fiori diceva di odiarli. Andrea -ripeteva insistente -lui è Andrea. Ha stupendi occhi verdi e la passione per le barche a vela; gli piace il gelato al cioccolato e stare in mezzo alla gente. Gli piace sentirsi felice. Lui è Andrea, ed ha lo sguardo pieno di qualcosa. Avrebbe voluto pronunciare il suo nome, gridarlo per spezzare l’immobilità della notte, per marchiarselo sulla pelle. Avrebbe voluto svegliarlo, guardarlo negli occhi per più di tre secondi e trasmettergli uno sguardo pieno di qualcosa. Qualsiasi cosa. Purché fosse uno sguardo vivo, pieno, sconfinato. Ma nel suo sguardo fu solo il vuoto. Ed il vuoto, lei, sapeva riconoscerlo. All’improvviso fu il ricordo di un attimo, di un altro viso e di un altro tempo. Ma non un dejà vu. I dejà vu sono ricordi di un passato perso dal sapore dolciastro. Per lei non era mai stato un dejà vu, non era mai diventato il ricordo di un attimo. Le si era insinuato tra le vene mesi prima e le scorreva dentro ininterrottamente, un po’come il sangue che da la vita, o come i veleni che intorpidiscono i sensi. Lui era il fiore del loto.

Lei lo guardava da lontano, voltato di spalle, incorniciato dalla finestra della sua stanza. La sua figura alta e scura veniva a contrasto con la luce del tramonto.
Mi piacerebbe che venissi con me in un posto…al cimitero .Vorrei che mia nonna ti conoscesse. Qualche anno fa le promisi che ti avrei portato da lei, non appena ti avessi trovato. Schiuse le labbra, come per parlare, ma sapeva che non gli avrebbe mai confessato quel pensiero. Phil si girò lentamente e lei lo guardò negli occhi, per non più di tre secondi. Tanti ne bastavano: aveva capito tutto. Aveva visto il vuoto infinito negli occhi di lui. Ma avrebbe comunque provato a conviverci. Forse è per questo che qualche tempo dopo, mentre si dicevano addio in un ascensore, lei era riuscita ad indossare un emblematico sorriso. Poi era scappata via sotto la pioggia battente. Solo in macchina, al sicuro, avrebbe pianto.
G
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Questo è il primo testo non-mio che pubblico. Ma ho pensato che ne valesse la pena.
Vi ricordate il mio racconto 'Dejà vu'...
Questa mattina erano le 3.00 all'incirca ed ero appena tornato da un concerto in cui avevo suonato tanto fino a farmi sanguinare le dita. Ero stanchissimo ma speravo dentro di me di trovare 'qualcuno' in linea su MSN. Ho trovato due persone molto importanti della mia vita. Una, quella che credo al momento più importante, mi ha messo addosso un po' di tristezza, tanto che mi sono poi pentito di essermi connesso. L'altra, nel suo giocoso silenzio, mi ha saputo regalare qualcosa che non mi sarei mai aspettato. Questo racconto.
Si chiama Dejà Vu e si ricollega direttamente a quello scritto da me. Lo ha scritto di getto la sera in cui io le feci leggere il mio.
Si... lei è 'Sofia'.
Sono profondamente scosso.

In ascolto ancora : Twisted - Ultra Natè

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venerdì, dicembre 15, 2006

Gli Occhiali

"Tabby"
Acrylic and Vinyl Paint on Panel, 35cm x 61cm (14" x 24"), © 2006 Josh Agle




‘Ma dove diavolo ho messo i miei occhiali?’
‘Ce li avevo sul naso fino a un attimo fa!’

Non si dava pace, rovistò tutta la casa, partendo dalla scrivania in perfetto disordine da genio creativo. Spostò tutti i libri e le pile di cd che si ergevano dal pavimento e dalle mensole come grattacieli di una città globalizzata. Guardò nei posacenere, smontò ogni cassetto – anche quello della biancheria intima -, provò a guardare tra gli ingranaggi della stampante e tolse dal fornello a gas la pentola con l’acqua che bolliva per accertarsi che non vi fossero caduti all’interno. Si, guardò persino nel water… Non risparmiò nemmeno la cesta del gatto, guadagnandosi un’occhiata quanto mai perplessa e minacciosa del mite felino. ‘Ma dove sono? Diamine!’ e i nervi cominciarono a saltarle. Doveva consegnare al più presto delle relazioni, o non avrebbe potuto nemmeno pagare l’affitto di quella stamberga in cui soggiornava. E, tutto sommato, non si trattava nemmeno di Mon Matre de Paris… In preda al panico si denudò completamente indagando all’interno del generoso decolletè. Le sue pupille rimbalzavano nervosamente come la pallina di Arkanoid da un oggetto all’altro, lo sguardo sempre basso per capire dove il suo prezioso attrezzo potesse essere caduto. I suoi gesti erano lo specchio della tensione che la scuoteva in quegli attimi per lei drammatici: si strofinava la punta del naso, si mordeva il labbro inferiore – ma solo in quei brevi istanti in cui mollava la presa dalla sigaretta per riflettere meglio… e per eccesso di fumo negli occhi-, accennava di tanto in tanto un pianto isterico. Stranamente, aveva dato tregua ai lunghi capelli, che di solito erano oggetto delle sue angherie: -prima raccolti in uno chignon e tenuti insieme da una matita rosicchiata, poi legati in una coda frettolosa -, li muoveva con gesti lenti da una parte all’altra della nuca attorcigliandoli sulle dita. Si fece largo in lei l’idea che qualcuno…o qualcosa…avesse rubato i suoi occhiali mentre si era lievemente appisolata davanti allo schermo del pc. Si, non poteva essere altrimenti. Non potevano essersi smaterializzati e in casa evidentemente non c’erano! Ormai la sua mente farneticava teorie fantastiche e niente e nessuno avrebbe potuto fermarla da ciò che stava per fare. Riempì una borsa con poche cose necessarie e partì. Moto, treno, aereo. Si mise in viaggio verso posti in cui aveva vissuto e posti di cui era rimasta affascinata durante le sue letture. Scrutava attentamente la gente per capire dove fosse ciò che aveva perso. Pensava di poter trovare addosso agli altri ciò che lei non aveva più. Questo almeno è ciò che lei credeva. Ma perché tanto clamore per un paio di occhiali? Senza di loro per lei era come camminare di notte su una corda a 10 metri da terra, ma qualunque uomo a questo punto non può che porsi una sola domanda: ‘perché non comprarne un paio nuovo?’ Inutile dire che il problema non era di carattere economico… e nemmeno affettivo. Lei voleva i SUOI occhiali, era una questione di possesso. Ogni notte guardò da una città diversa una sfera molto sfocata nel cielo. Più cercava di capire e più la situazione le scivolava di mano. E più il panico si impossessava di lei, più viaggiava. Si fermò a parlare con molti sconosciuti e sperò ogni volta che quello potesse essere colui che conservava la verità. Era in giro ormai da settimane e aveva mangiato poco. Aveva voglia di cambiarsi d’abito e di un lungo bagno in una vasca di acqua bollente. Quel faticoso viaggio, che inizialmente aveva creduto essere il compimento del suo destino, si era rivelato un fallimento. Era annoiata. La notte prima di tornare a casa si era sforzata così tanto per mettere a fuoco la Luna che era riuscita a vederla perfettamente. L’aveva immaginata. L’aveva RICORDATA. Forse fu in quel momento che capì che poteva avere dentro di se la risposta a molti problemi. Nella sua testa…sulla sua testa. Entrò in casa che si era tolta già le scarpe, mentre si sbottonava la camicia. Lanciò il casco su una poltrona, spaventando terribilmente il micio che saltò due metri da terra e si mise a correre all’impazzata, sgommando sul parquet. Lei sorrise, si liberò anche degli altri indumenti e preparò il bagno con l’acqua calda, i sali e la musica giusta. Dopo tanto tempo stava per guardarsi di nuovo allo specchio, mentre l’occhio le cadde distrattamente su una matita con la doppia punta rossa e blu che giaceva consunta sul bordo del lavandino. Capì e non capì. Stava già entrando nella vasca, quando infilò una mano tra i capelli raccolti per scioglierli e sentì un brivido lungo la schiena, di un misto tra gioia e terrore. Forse l’acqua era troppo calda? No. Nel panico che era seguito alla constatazione della perdita, il caso – o la sbadataggine – aveva permesso di rendere il giallo quasi irrisolvibile. Se solo lei avesse mantenuto la calma, se si fosse passata come al solito le mani tra i capelli, avrebbe capito subito che per mantenere la sua chioma raccolta sul capo non aveva utilizzato come al solito la matita con cui revisionava i suoi scritti, ma con i tanto mistificati occhiali.
A volte abbiamo così vicino le cose di cui abbiamo bisogno che nemmeno ce ne accorgiamo.



In ascolto: Ultra Nate - Twisted

sabato, dicembre 09, 2006

Marschmallows



Mangio marshmallows e penso a te.
Indosso un pullover e penso a te.
Accendo la radio e penso a te.
Accarezzo il gatto e penso a te.
Esploro il frigorifero vuoto e penso a te.
Bevo vino dalla bottiglia e penso a te.
Faccio anelli di fumo e penso a te.
Faccio la spesa e penso a te.
Accordo la chitarra e penso a te.
Sono in treno e penso a te.
Giro in moto e penso a te.
Guido l’auto a 100 all’ora e penso a te.
Pago l’affitto e penso a te.
Non esco di casa e penso a te.
Sto con lei e penso a te.

Ma porco giuda, domani ti rendo i 200 euro così la finiamo con questa storia!


In ascolto: C’è più samba – Quintetto X

domenica, dicembre 03, 2006

Lo scantinato

La cantina del nonno.
Non saranno nemmeno tre metri quadrati di superficie. La luce all’interno non c’è mai stata, bisogna sempre accontentarsi di quella riflessa dalle pareti del cortile d’ingresso condominiale e dalla tromba delle scale. E’ certamente eccessivo chiamare “cantina” quel minuscolo e angusto ripostiglio che mio nonno custodisce gelosamente, lì nel vano sottoscala condominiale, ma sin da piccolo mi ha sempre affascinato provocandomi un curioso senso di “timore reverenziale”.
Niente di che, un buco buio e umido pieno di cianfrusaglie, stretto e con il solaio che parte dal pavimento per arrivare a quota circa un metro e ottanta. Ci sono sempre andato con mio nonno durante le feste in famiglia, per prendere delle sedie, piuttosto che una bottiglia di vino, o di salsa, oppure un’anguria. Da piccolo (e anche adesso…) mi terrorizzava e al tempo stesso catturava quell’odore rancido di umidità misto a polvere, quella fragranza tipica dei posti chiusi e bui.
Mi è sempre piaciuto immaginarla come l’accesso segreto ad un misterioso mondo sotterraneo, ma comunque guardandomi bene dal metterci più di un piede all’interno.
Questo pomeriggio vi sono tornato, solo, dopo tanto tempo, ed ho provato un vivido senso di deja-vù. Ho aperto il lucchetto con le chiavi di mia madre, ho spalancato la porticina di ferro, e dentro è stato sorprendente ritrovare ancora le stesse cose: il volante di una vecchia Fiat 500, un calendario di Formula Uno degli anni ’70, ombrelli, sedie pieghevoli in legno, bottiglie di salsa fatta in casa e di vino, un ombrellone da mare incellofanato, dei giubbotti da lavoro di mio nonno, scarponi, qualche vecchia rivista, attrezzi vari, recipienti in terracotta. E lì davanti, vicino al mio piede “ in avanscoperta”, la cassetta di fichi d’india lasciata per me da mio nonno. Un altro sguardo all’interno, un sorriso, raccolgo la cassetta e vado via.
La curiosità per le cose immerse ne buio non ha età.


(In ascolto: 57th minute of the 23rd our - Galliano)

sabato, dicembre 02, 2006

LunaThyco


Ti vedrò lo stesso
In quello spicchio di Luna.
Ti vedrò lo stesso
Baciato dalla fortuna.
Ti vedrò comunque
Nelle pieghe della mia pelle.
Ti vedrò comunque
Dentro un mare di stelle.