martedì, agosto 28, 2007

Solito Insolito


"Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti presenti nel racconto che segue è puramente casuale"

"...l'umorismo ricomincia a pilotarmi per la città. Un' insegna verde-menta mi promette wiskey-bar, un juke-box sussurra: 'Uasciuariuà'..."

Merci Bocu, Sergio Caputo

‘Cosa le servo? Il solito?’ mi chiese Osvaldo, con la sua tipica cortesia.

‘No’ risposi io, con il mio tipico piglio laconico.

Un bar un po’ kitsch, come lo sono tutti i bar che non possiamo – obiettivamente – definire ‘un bel bar’. Con un’insegna luminosa molto appariscente, ma che più nessuno sembra notare nel traffico del giorno, piuttosto che nella libidine della notte, a parte i suoi singolari ‘aficionados’.

Un bancone ricamato di specchi, che si riflettono e si moltiplicano in una infinità di rombi opacizzati dal tempo e dall’oblio. Specchi ovunque, anche al soffitto, poltrone rosse e viola di gusto tutto gratuitamente anni ’80. Sgabelli alti, un televisore fissato su una mensola, in alto, tavolini bassi, il cesso in basso a destra guardando il jukebox. Un fantastico jukebox, ovviamente anni ’80, che suona solo Depeche Mode, Duran Duran, Level 42, Chic, Earth, Wind & Fire, Imagination, U2, UB40. Per dirne alcuni. Me lo studiai per bene una notte che avevo poco sonno e vi trovai addirittura ‘Io e Rino’ di Segio Caputo. Ripeto: fantastico.

Ma torniamo a Osvaldo, al suo bar kitsch e alla sua tipica cortesia. Osvaldo è un barista di 63 anni. Non ho detto ‘un uomo di 63 anni’: non ne ha più le sembianze. Soltanto un barista o un senatore della repubblica possono sfoggiare un riporto come il suo. Il che rende la sua tipica cortesia, il suo bar kitsch e la sua insegna blu elettrico ancora più pulp. Pulp è il tipico aggettivo che posso, e potevo, dare io col mio piglio laconico e il mio fare ironico. Ma, credetemi, non avrei mai potuto non pensare al capolavoro cinematografico di Tarantino osservando Osvaldo e il suo riporto che a volte danzava rapito dai vortici d’aria di un ventilatore a soffitto un po’ stanco. E il suo jukebox e le poltrone viola e nere e rosse. E il suo capoccione tondo come la sua pancia. E ancora la vecchia battona che disintegrava mozziconi di sigaretta in un minuscolo posacenere seduta sul suo culone enorme. E la puzza di rancido. C’era una bella fauna da Osvaldo e mi stavano simpatici un po’ tutti. Ci passavo a tutte le ore: per brioche e cappuccino, per un caffè, per un tramezzino, per una birra… o forse più d’una, per un buon rum. I personaggi erano un po’ sempre gli stessi ai diversi orari e così variopinti che potrei scriverne a lungo, ma non è questo il mio obiettivo. Vi stavo parlando del mio caro bar kitsch, del caro Osvaldo con la sua cortesia e del mio fare laconico e osservatore.

Però, a pensarci un attimo, proprio non posso omettere in questo mio racconto la descrizione di un personaggio assai pittoresco che ogni giorno faceva tappa fissa al bar. Alle 7.45 di ogni mattina Tommaso chiedeva una birra in bottiglia. ‘Una Raffo, Ossssvaldo! Bella fressssca eh!? e appoggiava i suoi spiccioli impilati sul bancone, quando poteva pagare. Ma no… se vi parlo di Tommaso, della sua s sibilante, dei suoi tic nervosi e del suo vagare senza meta, facciamo notte.

Vi stavo raccontando di quel bar pulp che frequentavo, del riporto del suo gestore Osvaldo e delle volte che andavo a sedermi e a osservare e a scrivere, col mio piglio deciso e sciupafemmine.

E beh si… come quella volta che mi persi la trasferta con la squadra di calcio per quelle due calabresi… oddio no.

Mi ci ubriacavo volentieri, in quel bar kitsch con l’insegna al neon blu e i ventilatori metallici a soffitto e quella lampada blu che stecchisce le zanzare appesa alla vetrina laterale. Mi ubriacavo da solo in quel posto quando c’erano dei motivi esistenziali, tipo problemi con le donne, o il dover guardare dalla tribuna le partite della mia squadra, o lo stress da esami universitari. Mescolavo la birra con altri alcolici e facevo dei lunghi soliloqui abbracciato alla tazza del cesso. Che bei tempi. Ma perché un alcolizzato è così affascinante? Poi invece con gli amici mi ubriacavo perché ero felice. O forse eravamo tristi ma non lo sapevamo. Compravamo la birra al supermercato o al deposito delle bevande e con le buste tintinnanti ci allontanavamo dal centro abitato a delirare sotto la luna e la via lattea. Immagini bucoliche che non posso rimuovere dalla memoria. Il bar di Osvaldo faceva schifo ai miei amici, perciò ci andavo soltanto da solo. Con loro andavo al pub irlandese e ci sfondavamo il fegato con litri di sidro. E a volte ci lanciavamo le freccette addosso. Erano bei tempi quelli. Quando poi di notte facevo tappa da Osvaldo prima di rincasare, lui mi fissava in volto e mi chiedeva, in dialetto pugliese: ‘Na bìrr, uagliò?’. Sapeva già che c’era qualcosa che mi teneva acceso il cervello e che mi rendeva irrequieto, e che non volevo altro che una birra scura, una doppio malto corposa e alcolica. Gli raccontavo qualcosa, con la testa tra le mani e i gomiti appoggiati al bancone, e lui ascoltava con pazienza, magari guardando con la coda dell’occhio una partita del Milan. Non diceva niente il più delle volte. Era questo che volevo, che non parlasse e che vegliasse su di me mentre non ero capace di intendere e di volere. A lui piaceva ascoltarmi perché parlavo bene in italiano, e quasi nessuno dei suoi clienti abituali lo faceva. Sorrideva alle mie stronzate e si passava di continuo un fazzoletto di stoffa sulla nuca e sulla fronte. Era un bel posto quel bar così kitsch, e oserei dire pulp, con l’insegna intermittente e gli specchi ovunque, gestito da Osvaldo con il suo riporto, il sorriso simile alla tastiera di un pianoforte e una simpatia cortese fatta di pesanti battute in dialetto, e tanta pazienza. Amavo anche quel tipo losco che non parlava mai e fissava una litografia di James Dean mentre si stuzzicava gli incisivi con una scheda telefonica. Indossava una t-shirt, era sempre la stessa, con la scritta: “Il mio cuore batte solo per le fettine di cavallo.” Una delle poche volte che mi trovai da quelle parti con un altro mezzo alcolizzato di amico, stavo parlando con questo di religione, cristi e madonne e tronchetti della felicità, e lui – senza proferir verbo- si sfilò la maglia e ci lasciò vedere il tatuaggio che gli occupava in pieno la schiena: la Vergine Maria e una scritta tutto intorno: “Madona protegimi”. Si, avete letto bene. Scoprii più tardi che glielo avevano tatuato in carcere.

Quando mi presentavo in compagnia di una donna Osvaldo mi prendeva un po’ in giro per fare il ruffiano e mi dava del lei, fingendosi eccessivamente servile. Mi chiedeva in italiano ‘Còsa le servo, il solito?’ e mi portava la solita Tennent’s con la solita cortesia.

‘No’ risposi io quella volta, spiazzando il panciuto e fedele amico, che restò immobile, basito e pensieroso.

‘Oggi voglio una bionda. Media. Anzi, bellissima.’ dissi, sorridendo alla splendida creatura che mi accompagnava, con un tono e una intenzionalità comica che sarebbe parsa kitsch soltanto fuori da quel bar. Fuori da quel mondo romantico, bucolico e pulp, con le sedie rotonde intrecciate in vimini, l’insegna al neon blu elettrico e la cappa da fumo di sigaretta.

‘Okkei’ disse lui con piglio laconico e guappo.

‘D’ora in poi chiederò solo bionde in questo incantevole bar di periferia’ dissi io con inspiegabile e raggiante cortesia.

Etichette: , , ,