sabato, marzo 31, 2007

Trauma


è finita. sembrava eterna, immensa, interminabile. questa mattina mi sveglio e non c’è più. e chi se lo aspettava? non sento più il suo profumo, che dava subito un senso alle mie giornate. piombo in una cupa disperazione che segnerà indelebilmente questa domenica triste come i miei tristi boxer dai colori vivaci. mi rituffo nel letto della malinconia e degno la finestra di uno sguardo loquacemente inutile. la tapparella abbassata per metà lascia filtrare i raggi caldi di una mattinata adulta, mi invitano, ma declino ogni corteggiamento. sprofondo la faccia nel cuscino e quasi lo addento, quasi piango, scuotendo con le mani la testata del letto. dal midollo vien fuori un pensiero non pensato, che mi figura a dare una capocciata contro il comodino, col risultato, dai toni purtuttavia cruenti, di passar supino una giornata mezzomorto privo di sensi. matematicamente non posso prevedere se quel mezzo, nell’accezione di parte simmetrica dell’uno, possa diventare l’unità, la totalità, perciò la logica quantomeno mi suggerisce che il gioco non vale la candela. accendo una candela, alla vaniglia, solo per fini poetico-creativi. abbandono la posizione supina e il talamo complice e spettatore di trionfi, viaggi onirici e giustappunto drammi. dopo una breve colluttazione con la forza di gravità sono perfettamente ritto sulle zampe posteriori. in uno slancio virile, do una grattatina ai paesi bassi, che prontamente mi mandano un ambasciatore che non porta pene. mi sono alzato, non sono sveglio. ispeziono il volto sfatto nel vetro della credenza, ma non mi fido. troppo velleitari i riflessi che giungono alle mie pupille ancora in prognosi riservata. vago per la cucina, che non mi sembra più la stessa. troppo ingombrante questa nuova assenza. avrei dovuto prepararmi, un giorno, ad una tale misera eventualità. come ho potuto essere così poco attento, così cieco, superficiale?! è una dannata domenica e le campane a festa non mi aiutano a prevedere eventuali soluzioni. sono perso, disperato, praticamente in mutande. mi vesto. inciampo nei miei e nei suoi vestiti. la maledico. ma le dico… cosa le dico? torno in cucina con le mani affondate nella chioma pseudo-felina figlia dei risvegli traumatici. barcollo ma non mollo. sto per aprire il frigorifero per un ultimo disperato tentativo, quando lei mi cinge da tergo e mi bacia la schiena. con una voce che solo io posso distinguere da quella di quando è ubriaca, mi si rivolge candidamente: ‘Tesoro, aspettavi me per la colazione?....’ poi mi volto e, constatata la disperazione che dipinge cupamente il mio viso, continua: ‘Ehi, che ti prende? Non dirmi che è morto Flappy!’. ‘No, tranquilla, il gatto è ok, ma non uccidermi se ti dico che è finita la scorta di caffè………’


domenica, marzo 25, 2007

Se



Jean Michel Basquiat, Self Portrait

Se solo mi parlassi di più.

O se perlomeno non mi parlassi affatto.

Manca qualcosa, vero? Gli informatici ci campano sulla struttura ‘IF/THEN/ELSE’. E invece io non sono capace a chiudere il ciclo.

Se

se

se.

Se solo potessi evitare per sempre di usare la parola se. Sarebbe bello poter vivere senza essere schiavi dei periodi ipotetici. Sarebbe bello?

La tua ennesima tela.

L’hai fotografata con la tua fotocamera digitale e, come sempre, me l’hai spedita in un file ad alta risoluzione. Questa volta è davvero enorme. Ho usato il computer dello studio per scaricarla, ci avrei messo una vita utilizzando la mia connessione lenta. Lenta come le nuvole bianche che scorrono sui palazzi in questa giornata tutto sommato soleggiata. Sto ascoltando un concerto di Paolo Conte mentre la guardo, mentre avrei un sacco di musica da suonare e una caterva di lavoro urgente da completare. Ho fatto richiesta che non entri nessuno nel mio studio, così tutti penseranno che mi stia concentrando per completare le bozze della nuova campagna pubblicitaria della Regione Puglia. Quando ero ancora uno studente non avrei mai immaginato che il mio studio avrebbe potuto assomigliare così tanto alla mia camera. In quanto a disordine, intendo. La mia segretaria è più grande di me e mi ricorda mia madre quando mi rimprovera per il caos in cui sguazzo mentre lavoro. Ormai le permetto anche di dire che ciò è poco professionale, perché ha ragione.

Osservo con attenzione l’ultima tua creazione e svuoto inesorabilmente un pacchetto di sigarette. Abbasso il volume dello stereo.

Sono mesi che non ci vediamo. A parte quel caffè ‘ciao come stai bene e tu bene ciao’. Sono mesi che produci quadri e me ne spedisci fotografie. Poi mi chiami nel cuore della notte per chiedermi un parere. Sono mesi che ti spedisco gli haiku che scrivo, ma non mi dai mai un tuo parere. Sono mesi che parliamo per il gusto perverso di assaporare i ricordi associati a quegli armonici e a quelle frequenze ora impastate dalla linea telefonica. E mentre quel manichino così rassomigliante a te sorbiva un caffè macchiato, riproducendo un messaggio pre-registrato sulle nuove tecniche espressive che stavi sperimentando, io fissavo la copia perfetta dei tuoi occhi, concentrandomi per leggere e interpretare adeguatamente il labbiale di ciò che mi stavano dicendo. Ammetto di aver fallito miseramente. Parlavano troppo in fretta i tuoi occhi e, quando si accorgevano che ero a un passo dal seguire il filo del discorso, si abbassavano imbarazzati. E allora mi sforzavo di rompere quel mio silenzio, che durava chissà da quanto tempo, per dire qualcosa che potesse andare bene in qualsiasi situazione, per non insospettire il manichino…

E adesso devo mettere da parte i panni del musicista, ancor prima di quelli del pubblicitario, per entrare nella parte dell’investigatore scientifico. Osservo le copie dei tuoi quadri e prendo appunti. Poi rileggo i rapporti sulle opere precedenti cercando di costruire una rete inesorabile di collegamenti, di previsioni, di possibili spiegazioni logiche. No. E’ pura follia. Né la logica, né tanto meno la più moderna risorsa tecnologica a disposizione della polizia scientifica potrebbero portarmi alla soluzione di questo caso. Vuoi parlarmi attraverso i segni impressi sulle tue tele, attraverso quei colori, sempre troppo glaciali, troppo malinconici. E poi quel segno rosso. C’è sempre un segno rosso. Non c’è mai stato un segno rosso nei tuoi quadri prima che tu mi conoscessi. Quando io già teorizzavo una mia estetica del rosso. Non posso che sentirmi colpevole/responsabile. E allora mi ritrovo ad accarezzare lo schermo del pc, in quei punti più caldi dove hai deciso di collocarmi, dove hai lasciato il nuovo indizio di una caccia al tormento. Mi sento stupido e presuntuoso a trarne delle indicazioni emotive così forti, così legate alla immagine di me che abita in te. Ma non mi resta altro a cui aggrapparmi, legato -tramite una fune manomessa che sta per cedere- al profumo dei tuoi capelli, che a volte viene a scuotermi nel letto di notte per svegliarmi, scappando poi vigliaccamente in sidecar insieme al calore del tuo corpo freddo.

E le parole evaporano sotto il sole di un’estate mai vissuta. Superflue come un trucco che dovesse deturpare il tuo viso così affascinante. Prolisse e inutili aggiunte di acqua in un risotto che non cuoce mai. Acqua che evapora al sole della lontananza e del silenzio per essere poi rimpiazzata in occasione di una nuova conversazione aggrappata agli specchi dei ‘non saprei’ e dei ‘sai com’è’.

Parole che faccio solidificare in questo freddo inverno che non ha mai fine, per ricavarne cubetti perfetti con cui edificare solide ed eleganti sinfonie del niente. Haiku, poesie, racconti paradossali. Non mi resta che giocarci, con le parole. E gioco anche con la mia immagine, riflessa in una bottiglia di Passito, dolce riscatto notturno alle mie giornate troppo dopate di caffeina e incomprensibile indolenza. Ne faccio un calco in sughero e la riproduco in serie nelle mie realizzazioni. Ogni volta in una salsa diversa. Sdogano la mia immagine in mille forme per abbuffare la bestia che si agita in me. Per nutrirla di manifestazioni di stima, di gradimento, di attrazione sessuale. Ma è solo una bestia che mi difende, pur rendendomi inavvicinabile. E’ un can che abbaia. Morde anche, ma non ha denti. Non fa male. Fa molto più male la sua indifferenza. Ha solo bisogno di essere avvicinata con coraggio e fiducia, affinché smetta anche di abbaiare. Ma poi qualcuno viene a scavalcare il recinto del mio cuore, senza permesso. A quel punto la bestia, prima di devastare il malcapitato, viene a sbranare me.

E allora vorrei iniziare a nuotare per sempre in un silenzio in chiave di basso. Il silenzio di due muti che vedono le parole sgorgare dagli oggetti e dagli occhi delle persone, che sentono le emozioni attraverso le note sbagliate in un assolo di jazz, attraverso le pause, le cacofonie, le note raccolte ai piedi di un Dio che non esiste ma che nasce dall’estasi, quelle note che ti fanno fermare il battito del cuore per qualche secondo e poi te lo spingono ad un ritmo accelerato, quelle note che sei sicuro di non aver scelto volontariamente e che ti fanno essere così orgoglioso in quell’istante da illuderti di essere il creatore di tutto questo enorme manicomio roteante.

Se fossi Dio, a questo punto mi accorgerei di essere un po’ sadico. Chiederei a qualcuno di mandarmi a quel paese e in quel paese inizierei a pensare ad una vita più onesta.

XXXVI

S'i' non torni ne l'odïo d'Amore,

che non vorre' per aver Paradiso,

i' ho 'n tal donna lo mi' cor assiso,

che, chi dicesse: - Ti fo 'mperadore,

e sta' che non la veggi pur du' ore -

sì li direi: - Va', che sii ucciso! -

ed in vedendo lei sì son diviso

da tutto quel che si chiama dolore.

Avvegna ch'i' di ciò me n'ho mistiere,

di veder cosa che dolor mi tolla:

ch'è più quei che mi fa frat'Angioliere,

che per mille ore stare 'n su la colla;

che già diece anni li rupp'un bicchiere:

ancor di maladìciarmi non molla.

LXXXVI

S'i' fosse foco, arderéi 'l mondo;

s' i' fosse vento, lo tempesterei;

s'i' fosse acqua, i' l'annegherei;

s'i' fosse Dio, mandereil'en profondo;

s'i' fosse papa, sare' allor giocondo,

ché tutti cristïani imbrigherei;

s'i' fosse 'mperator, sa' che farei?

A tutti mozzarei lo capo a tondo.

S'i fosse morte, andarei da mio padre;

s'i' fosse vita, fuggirei da lui:

similemente farìa da mi' madre.

S'i' fosse Cecco, com'i' sono e fui,

torrei le donne giovani e leggiadre:

e vecchie e laide lasserei altrui.

[Cecco Angiolieri – Rime]


IF x;

THEN y;

ELSE z.

Un’altra tela;

un altro se;

il cerchio non si chiude.



In ascolto : Via con me - Paolo Conte

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sabato, marzo 17, 2007

Seen It All Before

“Go ahead baby, run away again

I’m growing tired of chasing you

I know you only have time to love me

When you got nothing better to do.

…You know that I’ve seen it all before

I ain’t gonna be your fool any more…”

Amos Lee – Seen It All Before

“..ma la mia memoria scivola

mi ricordo limpida la trasmissione dei pensieri

la sensazione che in un attimo

qualunque cosa pensassimo poteva succedere

E poi cos'è successo

aspettami oppure dimenticami

ci rivediamo adesso

dopo quasi cinque anni..”

Federico Zampaglione – La descrizione di un attimo

“She loves me when I'm strong and hates me when I'm weak”

Georg Levin – Mrs Superficial


Seen it all before.

Scatta una foto di me oggi.

Oggi che sono bello, oggi che sono forte.

Fai di me ciò che vuoi oggi.

Osservami, stringimi, parlami.

Fallo oggi che non mi conosci.

Oggi che i miei occhi ti incutono timore, imbarazzo, sicurezza.

Fai un’istantanea di me che ti sorrido oggi.

Fallo adesso perché domani sarò diverso.

Lascia che gli anni passino prima di riguardare questa foto.

E forse capirai di non avere amato me, ma un istante.


In Ascolto : Seen It All Before - Amos Lee
La descrizione di un attimo - Tiromancino
Mrs Superficial - Georg Levin


sabato, marzo 10, 2007

That Night


Quella sera entrambi avevamo bevuto un bicchiere di troppo. Forse anche due. Dovevano essere passate le 3 quando rimisi in fretta e furia le mie carte e i miei quaderni dentro la borsa, pagai il conto e uscii fuori dal wine bar. Non mi accorsi nemmeno di aver lasciato più di dieci euro di mancia.

Eravamo andati in quel posto perché avevo bisogno di un incontro, un chiarimento, un’intesa. Lei aveva acconsentito, come sempre, e mi aveva seguito come un ombra fino a quella taverna poco conosciuta ma molto frequentata. Non avevo avuto bisogno neanche di chiederle conferma e avevo ordinato due calici di Falanghina. Un gruppo di ventenni dall’aria evidentemente snob si preparava a un giro di Assenzio, con i piccoli bicchieri già pronti sul bancone dopo la breve combustione. Un tizio alla mia destra tracannava una birra doppio malto, alternandola a brevi sorsi di wodka polacca alla ciliegia e imprecazioni in una lingua che riconobbi essere portoghese. Non dovevo apparire troppo strano allora attraversando il locale con due bicchieri di vino bianco tra le dita. Sceglievo sempre un tavolo piccolo vicino all’ingresso, in modo da rendere agevoli le numerose uscite per fumare sigarette. O forse lo sceglieva lei, non ricordo. L’elemento particolare di quel locale era la musica. Non classico e prevedibile jazz, che tra l’altro amavo come la mia vita, ma musica elettronica egregiamente selezionata. In questo posto antico e moderno si incontravano in un modo che non so spiegare senza diventare prolisso.

Lei non si era ancora espressa fino a quel momento, troppo concentrata su quell’electro-jazz così tanto raffinato quanto blasfemo alle orecchie di qualche purista. Anche io ascoltavo e sorseggiavo vino. Mi guardavo attorno. Attorno mi guardavano. Annaffiavo il mio narcisismo ma senza curarmene più di tanto, così preso com’ero da alcune ossessioni personali. Uscimmo a fumare la prima sigaretta, perché speravo che un po’ di nicotina mi aiutasse con la concentrazione. Sulle scale strette, altra gente conversava e fumava vicino al portoncino. Fumai senza parlare fissando tre quarti di luna annebbiata. Lei silenziosa sembrava in attesa di capire dove volessi andare a parare; mi metteva ansia. Tornati di sotto, presi dalla mia borsa che usavo per lavoro un taccuino di schizzi e appunti, un raccoglitore con alcune stampe di documenti battuti al computer ed alcune lettere scritte a mano con inchiostro rosso. Era una raccolta di materiale scritto da me e da una donna che avevo amato in un periodo felice della mia vita. Lettere, appunti di conversazioni interessanti, disegni fatti in quel periodo, dischi ascoltati e consigliati e anche messaggi mandati con il cellulare. Avevo pensato che insieme sarebbero stati come le sequenze di un film da riguardare con calma dopo che lo si è girato, potendosi soffermare con un punto di vista più ‘obiettivo’ sulle cose sfuggite alle visioni precedenti. Dovevo riguardare quel film per capire se potevo girarne uno nuovo oppure dovevo bruciare quella pellicola e ricominciare da capo la stessa sceneggiatura. E’ ovvio che lei esigesse a prescindere che considerassi quel film come un’esperienza poco edificante, non tanto da dimenticare, ma piuttosto da superare senza indugi. Cominciò a parlarmi come un torrente in piena; d’un tratto mi sorpresi di quanto fosse stato assoluto il silenzio prima del suo monologo. Dopo ogni frase che leggevo e man mano che ai ricordi si aggiungevano particolari nuovi allora sorvolati, lei rincarava la dose. Io ero già al secondo calice di bianco ed eravamo al quarto in pratica. Facevo fatica a trattenere le lacrime rendendomi conto di quanto la situazione fosse andata fuori dal mio controllo, e di come contestualmente tutta quella bellezza non era stata da me rimossa dopo tutto quel tempo, ma aveva continuato a scorrere sottopelle, arricchendosi delle fantasie create dall’assenza, dalla lontananza, dal dubbio. Lei avrebbe dovuto aiutarmi in tutto questo marasma interiore. Avevo pensato di volere il suo parere, di poterne accettare l’obiettività che da sempre le avevo riconosciuto, ma quelle lacrime soppresse e il terzo Falanghina mi fecero capire che non riuscivo ad ascoltarla. Non volevo, anche se avrei potuto. E proprio questa meraviglia nel vedermi contrariato, convinto di volerla mettere a tacere, mi faceva ribollire il sangue e piombare in uno stato di catatonia cronica. Ormai i suoi ‘falla finita’ e i suoi ‘dimentica’ si mescolavano al rumore dei bicchieri, delle posate, delle risate. Sapevo che lo faceva perché mi voleva bene, perché era lì per salvarmi, ma i miei ragionamenti mi sembravano più forti, anche se paradossalmente molto meno stabili. Avevo imparato a fidarmi sempre del mio istinto quando ero convinto, e mi era sempre andata bene.

Con lo sguardo fisso sull’insegna al neon di una marca di birra, mi alzai di scatto e riposi tutte le mie cose nella borsa. Feci un cenno ad uno dei barmen e lasciai i soldi del conto sul tavolo, senza aspettare di ricevere resto e scontrino. Lei mi seguì come una nuvola di parole intorno alla testa. Avevo iniziato a gridarle addosso, salendo le scale, e a chiederle di lasciarmi in pace e di andare via. Le persone che mi videro uscire in strada si guardarono con sguardi perplessi. ‘Per favore, smettila, taci.’ le ripetevo piagnucolando come un isterico. ‘Dov’eri quando avevo bisogno di te? Eh? Rispondi!’ aggiungevo dopo ogni affermazione o richiesta di silenzio. Lei mi urlava parole che mi sembravano insulti, ma non perdeva, come invece stavo facendo io, la calma. Ero esausto, stanco, deluso, mi scappava la pipì, avevo mal di testa e il mondo che mi circondava aveva deciso di ruotare intorno a me. Spettacolare manifestazione del mio egocentrismo. Mi sdraiai vicino ad una fontana con una grande vasca illuminata e grandi statue che lasciavano ora scorrere ora zampillare l’acqua tra le proprie forme perfette di dei ellenici. E allora fu il mio corpo che mi sembrò iniziare a roteare sullo sfondo immobile di una piazza lastricata di pietra e paure viscerali. Lei stava per attaccarmi di nuovo, quando mi alzai sulle gambe e cominciai a rincorrerla intorno al bordo della vasca. Riuscì, o forse immaginai di riuscire, ad afferrarla ed iniziò uno scontro violento. Ad ogni colpo infertole mi sentivo più stanco e ci vedevo di meno, sentivo delle fitte atroci sul corpo e la mia bocca era impastata di sangue e saliva etilica.

La spinsi in acqua. Solo poche decine di centimetri di profondità, ma furono abbastanza per riempire il suo corpo mortale di acqua e rancore.

Fu così che ammazzai la mia coscienza.

Fu così che mi tolsi la vita quella sera che avevo bevuto un bicchiere di troppo. Forse anche due.


In ascolto: That Night (Wahoo Mix) - Jazzanova

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