domenica, marzo 25, 2007

Se



Jean Michel Basquiat, Self Portrait

Se solo mi parlassi di più.

O se perlomeno non mi parlassi affatto.

Manca qualcosa, vero? Gli informatici ci campano sulla struttura ‘IF/THEN/ELSE’. E invece io non sono capace a chiudere il ciclo.

Se

se

se.

Se solo potessi evitare per sempre di usare la parola se. Sarebbe bello poter vivere senza essere schiavi dei periodi ipotetici. Sarebbe bello?

La tua ennesima tela.

L’hai fotografata con la tua fotocamera digitale e, come sempre, me l’hai spedita in un file ad alta risoluzione. Questa volta è davvero enorme. Ho usato il computer dello studio per scaricarla, ci avrei messo una vita utilizzando la mia connessione lenta. Lenta come le nuvole bianche che scorrono sui palazzi in questa giornata tutto sommato soleggiata. Sto ascoltando un concerto di Paolo Conte mentre la guardo, mentre avrei un sacco di musica da suonare e una caterva di lavoro urgente da completare. Ho fatto richiesta che non entri nessuno nel mio studio, così tutti penseranno che mi stia concentrando per completare le bozze della nuova campagna pubblicitaria della Regione Puglia. Quando ero ancora uno studente non avrei mai immaginato che il mio studio avrebbe potuto assomigliare così tanto alla mia camera. In quanto a disordine, intendo. La mia segretaria è più grande di me e mi ricorda mia madre quando mi rimprovera per il caos in cui sguazzo mentre lavoro. Ormai le permetto anche di dire che ciò è poco professionale, perché ha ragione.

Osservo con attenzione l’ultima tua creazione e svuoto inesorabilmente un pacchetto di sigarette. Abbasso il volume dello stereo.

Sono mesi che non ci vediamo. A parte quel caffè ‘ciao come stai bene e tu bene ciao’. Sono mesi che produci quadri e me ne spedisci fotografie. Poi mi chiami nel cuore della notte per chiedermi un parere. Sono mesi che ti spedisco gli haiku che scrivo, ma non mi dai mai un tuo parere. Sono mesi che parliamo per il gusto perverso di assaporare i ricordi associati a quegli armonici e a quelle frequenze ora impastate dalla linea telefonica. E mentre quel manichino così rassomigliante a te sorbiva un caffè macchiato, riproducendo un messaggio pre-registrato sulle nuove tecniche espressive che stavi sperimentando, io fissavo la copia perfetta dei tuoi occhi, concentrandomi per leggere e interpretare adeguatamente il labbiale di ciò che mi stavano dicendo. Ammetto di aver fallito miseramente. Parlavano troppo in fretta i tuoi occhi e, quando si accorgevano che ero a un passo dal seguire il filo del discorso, si abbassavano imbarazzati. E allora mi sforzavo di rompere quel mio silenzio, che durava chissà da quanto tempo, per dire qualcosa che potesse andare bene in qualsiasi situazione, per non insospettire il manichino…

E adesso devo mettere da parte i panni del musicista, ancor prima di quelli del pubblicitario, per entrare nella parte dell’investigatore scientifico. Osservo le copie dei tuoi quadri e prendo appunti. Poi rileggo i rapporti sulle opere precedenti cercando di costruire una rete inesorabile di collegamenti, di previsioni, di possibili spiegazioni logiche. No. E’ pura follia. Né la logica, né tanto meno la più moderna risorsa tecnologica a disposizione della polizia scientifica potrebbero portarmi alla soluzione di questo caso. Vuoi parlarmi attraverso i segni impressi sulle tue tele, attraverso quei colori, sempre troppo glaciali, troppo malinconici. E poi quel segno rosso. C’è sempre un segno rosso. Non c’è mai stato un segno rosso nei tuoi quadri prima che tu mi conoscessi. Quando io già teorizzavo una mia estetica del rosso. Non posso che sentirmi colpevole/responsabile. E allora mi ritrovo ad accarezzare lo schermo del pc, in quei punti più caldi dove hai deciso di collocarmi, dove hai lasciato il nuovo indizio di una caccia al tormento. Mi sento stupido e presuntuoso a trarne delle indicazioni emotive così forti, così legate alla immagine di me che abita in te. Ma non mi resta altro a cui aggrapparmi, legato -tramite una fune manomessa che sta per cedere- al profumo dei tuoi capelli, che a volte viene a scuotermi nel letto di notte per svegliarmi, scappando poi vigliaccamente in sidecar insieme al calore del tuo corpo freddo.

E le parole evaporano sotto il sole di un’estate mai vissuta. Superflue come un trucco che dovesse deturpare il tuo viso così affascinante. Prolisse e inutili aggiunte di acqua in un risotto che non cuoce mai. Acqua che evapora al sole della lontananza e del silenzio per essere poi rimpiazzata in occasione di una nuova conversazione aggrappata agli specchi dei ‘non saprei’ e dei ‘sai com’è’.

Parole che faccio solidificare in questo freddo inverno che non ha mai fine, per ricavarne cubetti perfetti con cui edificare solide ed eleganti sinfonie del niente. Haiku, poesie, racconti paradossali. Non mi resta che giocarci, con le parole. E gioco anche con la mia immagine, riflessa in una bottiglia di Passito, dolce riscatto notturno alle mie giornate troppo dopate di caffeina e incomprensibile indolenza. Ne faccio un calco in sughero e la riproduco in serie nelle mie realizzazioni. Ogni volta in una salsa diversa. Sdogano la mia immagine in mille forme per abbuffare la bestia che si agita in me. Per nutrirla di manifestazioni di stima, di gradimento, di attrazione sessuale. Ma è solo una bestia che mi difende, pur rendendomi inavvicinabile. E’ un can che abbaia. Morde anche, ma non ha denti. Non fa male. Fa molto più male la sua indifferenza. Ha solo bisogno di essere avvicinata con coraggio e fiducia, affinché smetta anche di abbaiare. Ma poi qualcuno viene a scavalcare il recinto del mio cuore, senza permesso. A quel punto la bestia, prima di devastare il malcapitato, viene a sbranare me.

E allora vorrei iniziare a nuotare per sempre in un silenzio in chiave di basso. Il silenzio di due muti che vedono le parole sgorgare dagli oggetti e dagli occhi delle persone, che sentono le emozioni attraverso le note sbagliate in un assolo di jazz, attraverso le pause, le cacofonie, le note raccolte ai piedi di un Dio che non esiste ma che nasce dall’estasi, quelle note che ti fanno fermare il battito del cuore per qualche secondo e poi te lo spingono ad un ritmo accelerato, quelle note che sei sicuro di non aver scelto volontariamente e che ti fanno essere così orgoglioso in quell’istante da illuderti di essere il creatore di tutto questo enorme manicomio roteante.

Se fossi Dio, a questo punto mi accorgerei di essere un po’ sadico. Chiederei a qualcuno di mandarmi a quel paese e in quel paese inizierei a pensare ad una vita più onesta.

XXXVI

S'i' non torni ne l'odïo d'Amore,

che non vorre' per aver Paradiso,

i' ho 'n tal donna lo mi' cor assiso,

che, chi dicesse: - Ti fo 'mperadore,

e sta' che non la veggi pur du' ore -

sì li direi: - Va', che sii ucciso! -

ed in vedendo lei sì son diviso

da tutto quel che si chiama dolore.

Avvegna ch'i' di ciò me n'ho mistiere,

di veder cosa che dolor mi tolla:

ch'è più quei che mi fa frat'Angioliere,

che per mille ore stare 'n su la colla;

che già diece anni li rupp'un bicchiere:

ancor di maladìciarmi non molla.

LXXXVI

S'i' fosse foco, arderéi 'l mondo;

s' i' fosse vento, lo tempesterei;

s'i' fosse acqua, i' l'annegherei;

s'i' fosse Dio, mandereil'en profondo;

s'i' fosse papa, sare' allor giocondo,

ché tutti cristïani imbrigherei;

s'i' fosse 'mperator, sa' che farei?

A tutti mozzarei lo capo a tondo.

S'i fosse morte, andarei da mio padre;

s'i' fosse vita, fuggirei da lui:

similemente farìa da mi' madre.

S'i' fosse Cecco, com'i' sono e fui,

torrei le donne giovani e leggiadre:

e vecchie e laide lasserei altrui.

[Cecco Angiolieri – Rime]


IF x;

THEN y;

ELSE z.

Un’altra tela;

un altro se;

il cerchio non si chiude.



In ascolto : Via con me - Paolo Conte

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