sabato, marzo 10, 2007

That Night


Quella sera entrambi avevamo bevuto un bicchiere di troppo. Forse anche due. Dovevano essere passate le 3 quando rimisi in fretta e furia le mie carte e i miei quaderni dentro la borsa, pagai il conto e uscii fuori dal wine bar. Non mi accorsi nemmeno di aver lasciato più di dieci euro di mancia.

Eravamo andati in quel posto perché avevo bisogno di un incontro, un chiarimento, un’intesa. Lei aveva acconsentito, come sempre, e mi aveva seguito come un ombra fino a quella taverna poco conosciuta ma molto frequentata. Non avevo avuto bisogno neanche di chiederle conferma e avevo ordinato due calici di Falanghina. Un gruppo di ventenni dall’aria evidentemente snob si preparava a un giro di Assenzio, con i piccoli bicchieri già pronti sul bancone dopo la breve combustione. Un tizio alla mia destra tracannava una birra doppio malto, alternandola a brevi sorsi di wodka polacca alla ciliegia e imprecazioni in una lingua che riconobbi essere portoghese. Non dovevo apparire troppo strano allora attraversando il locale con due bicchieri di vino bianco tra le dita. Sceglievo sempre un tavolo piccolo vicino all’ingresso, in modo da rendere agevoli le numerose uscite per fumare sigarette. O forse lo sceglieva lei, non ricordo. L’elemento particolare di quel locale era la musica. Non classico e prevedibile jazz, che tra l’altro amavo come la mia vita, ma musica elettronica egregiamente selezionata. In questo posto antico e moderno si incontravano in un modo che non so spiegare senza diventare prolisso.

Lei non si era ancora espressa fino a quel momento, troppo concentrata su quell’electro-jazz così tanto raffinato quanto blasfemo alle orecchie di qualche purista. Anche io ascoltavo e sorseggiavo vino. Mi guardavo attorno. Attorno mi guardavano. Annaffiavo il mio narcisismo ma senza curarmene più di tanto, così preso com’ero da alcune ossessioni personali. Uscimmo a fumare la prima sigaretta, perché speravo che un po’ di nicotina mi aiutasse con la concentrazione. Sulle scale strette, altra gente conversava e fumava vicino al portoncino. Fumai senza parlare fissando tre quarti di luna annebbiata. Lei silenziosa sembrava in attesa di capire dove volessi andare a parare; mi metteva ansia. Tornati di sotto, presi dalla mia borsa che usavo per lavoro un taccuino di schizzi e appunti, un raccoglitore con alcune stampe di documenti battuti al computer ed alcune lettere scritte a mano con inchiostro rosso. Era una raccolta di materiale scritto da me e da una donna che avevo amato in un periodo felice della mia vita. Lettere, appunti di conversazioni interessanti, disegni fatti in quel periodo, dischi ascoltati e consigliati e anche messaggi mandati con il cellulare. Avevo pensato che insieme sarebbero stati come le sequenze di un film da riguardare con calma dopo che lo si è girato, potendosi soffermare con un punto di vista più ‘obiettivo’ sulle cose sfuggite alle visioni precedenti. Dovevo riguardare quel film per capire se potevo girarne uno nuovo oppure dovevo bruciare quella pellicola e ricominciare da capo la stessa sceneggiatura. E’ ovvio che lei esigesse a prescindere che considerassi quel film come un’esperienza poco edificante, non tanto da dimenticare, ma piuttosto da superare senza indugi. Cominciò a parlarmi come un torrente in piena; d’un tratto mi sorpresi di quanto fosse stato assoluto il silenzio prima del suo monologo. Dopo ogni frase che leggevo e man mano che ai ricordi si aggiungevano particolari nuovi allora sorvolati, lei rincarava la dose. Io ero già al secondo calice di bianco ed eravamo al quarto in pratica. Facevo fatica a trattenere le lacrime rendendomi conto di quanto la situazione fosse andata fuori dal mio controllo, e di come contestualmente tutta quella bellezza non era stata da me rimossa dopo tutto quel tempo, ma aveva continuato a scorrere sottopelle, arricchendosi delle fantasie create dall’assenza, dalla lontananza, dal dubbio. Lei avrebbe dovuto aiutarmi in tutto questo marasma interiore. Avevo pensato di volere il suo parere, di poterne accettare l’obiettività che da sempre le avevo riconosciuto, ma quelle lacrime soppresse e il terzo Falanghina mi fecero capire che non riuscivo ad ascoltarla. Non volevo, anche se avrei potuto. E proprio questa meraviglia nel vedermi contrariato, convinto di volerla mettere a tacere, mi faceva ribollire il sangue e piombare in uno stato di catatonia cronica. Ormai i suoi ‘falla finita’ e i suoi ‘dimentica’ si mescolavano al rumore dei bicchieri, delle posate, delle risate. Sapevo che lo faceva perché mi voleva bene, perché era lì per salvarmi, ma i miei ragionamenti mi sembravano più forti, anche se paradossalmente molto meno stabili. Avevo imparato a fidarmi sempre del mio istinto quando ero convinto, e mi era sempre andata bene.

Con lo sguardo fisso sull’insegna al neon di una marca di birra, mi alzai di scatto e riposi tutte le mie cose nella borsa. Feci un cenno ad uno dei barmen e lasciai i soldi del conto sul tavolo, senza aspettare di ricevere resto e scontrino. Lei mi seguì come una nuvola di parole intorno alla testa. Avevo iniziato a gridarle addosso, salendo le scale, e a chiederle di lasciarmi in pace e di andare via. Le persone che mi videro uscire in strada si guardarono con sguardi perplessi. ‘Per favore, smettila, taci.’ le ripetevo piagnucolando come un isterico. ‘Dov’eri quando avevo bisogno di te? Eh? Rispondi!’ aggiungevo dopo ogni affermazione o richiesta di silenzio. Lei mi urlava parole che mi sembravano insulti, ma non perdeva, come invece stavo facendo io, la calma. Ero esausto, stanco, deluso, mi scappava la pipì, avevo mal di testa e il mondo che mi circondava aveva deciso di ruotare intorno a me. Spettacolare manifestazione del mio egocentrismo. Mi sdraiai vicino ad una fontana con una grande vasca illuminata e grandi statue che lasciavano ora scorrere ora zampillare l’acqua tra le proprie forme perfette di dei ellenici. E allora fu il mio corpo che mi sembrò iniziare a roteare sullo sfondo immobile di una piazza lastricata di pietra e paure viscerali. Lei stava per attaccarmi di nuovo, quando mi alzai sulle gambe e cominciai a rincorrerla intorno al bordo della vasca. Riuscì, o forse immaginai di riuscire, ad afferrarla ed iniziò uno scontro violento. Ad ogni colpo infertole mi sentivo più stanco e ci vedevo di meno, sentivo delle fitte atroci sul corpo e la mia bocca era impastata di sangue e saliva etilica.

La spinsi in acqua. Solo poche decine di centimetri di profondità, ma furono abbastanza per riempire il suo corpo mortale di acqua e rancore.

Fu così che ammazzai la mia coscienza.

Fu così che mi tolsi la vita quella sera che avevo bevuto un bicchiere di troppo. Forse anche due.


In ascolto: That Night (Wahoo Mix) - Jazzanova

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