domenica, aprile 06, 2008

Dipendenze (Part II)(flashback: Love Can Damage Your Health)


Ogni riferimento a persone e luoghi esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.
(La prima parte del racconto è nel post che segue)



“Ciao Carlo, buonanotte.. e grazie per avermi dato una mano…”

“Ma figurati Stè, tu hai quel contrabbasso enorme da trasportare… e io solo il mio trombone. Cosa vuoi che sia farsi cinque piani di scale a piedi con in braccio un amplificatore? Mi servi tutto intero per il concerto al ‘Bottleneck’ della prossima settimana. Te l’ho detto [ansima]… ci sarà Venturi in sala… e quello ci può far entrare nei giri importanti! Riposati.”

“Ok Cà. Grazie. Buonanotte.”

[Carlo strizza un occhio e si allontana. Poi, mentre Stefano sta per aprire la porta del suo appartamento, Carlo si ferma e si volta di nuovo:]

“Stefano…”

“Si, dimmi.”

“Bravo. Complimenti. Volevo dirti che da quando sei ‘pulito’ sei davvero grande. I tuoi swing sono più affidabili… e il groove che hai adesso nei soli non ha paragoni col passato. Sono davvero contento per te. Sei davvero riuscito a liberarti da quella merda e si vede. E poi Angelica è pazza di te e sei felice. Siete felici, è bello vedervi… anche per un ‘vitellone’ come me!”

“Grazie Carlo. Adesso sono troppo stanco anche per arrossire. Grazie per aver creduto in me…e… basta, cazzo, mi stai facendo dire troppi ‘grazie’… brutto infame!”

Sorridono.

“Dai… presto troverai anche tu una sottospecie di femmina che ti sopporti fino a che la vecchiaia ti renderà ancora più sclerotico di adesso… e anche oltre. Quando la trovi te ne accorgi… e io me ne accorgerò su di te… forse smetterai di fumare come un nevrotico, CAZZONE!”

“Ahah… che gentile, grazie… buonanotte stronzo paraculo sfruttatore di forza lavoro!”

Il mio nome è Stefano Simonsson ed ho ventotto anni.

Ho un nome italiano perché i miei genitori vivevano già nel Salento quando sono nato. Mio padre Magnus, svedese, e mia madre Cristina, argentina, avevano deciso di unirsi ad una piccola comunità di parenti di mia madre quando i genitori di lei erano morti in un incidente.

Vivo a Perugia da dieci anni, da quando mi ci trasferii per frequentare l’università.

Strinsi subito una solida e bizzarra amicizia con Antonio, un pukabbestia di Matera che divideva con me l’appartamentino per studenti. Eravamo entrambi fissati col Rock-Progressive e lui, dopo due mesi di conoscenza, mi trovò un posto da bassista in una cover-band dei Pink Floyd. Antonio era iscritto alla Facoltà di Lingue Straniere, ma le uniche lingue che al momento conosceva erano quelle delle schifose che si portava in camera. Non faceva un cazzo tutto il giorno e si ammazzava di canne (e credo anche di seghe). Con lui mi feci la prima ‘tromba’ della mia vita e, nonostante non avessi mai fumato sigarette, diventai moderatamente dipendente dalla cannabis. Antò mi istruì riguardo alla localizzazione dei suoi pusher di fiducia, ma in realtà in quel periodo io stavo ancora bene e non comprai quasi mai il fumo, accontentandomi di scroccare ogni tanto l’erba buona dal mio coinquilino (infatti si sa che l’erba del vicino è sempre più buona…). La sera andavo alle prove del gruppo, di notte uscivo a bere per locali con Antò e la mattina arrivavo bello rincoglionito alle lezioni di Matematica.

Una di queste mattine, in una pausa-canna in cortile, conobbi Margherita. Non ricordo come fosse vestita, ma di sicuro portava una fascia multicolore per tenere insieme la sua montagna di capelli ricci castano scuro e una marea di piercing tra orecchie, naso, sopracciglio, labbra, lingua. Stavo sicuramente raccontando qualche episodio della vita di Charles Mingus a Giorgio e Piero, due miei compagni di corso che a quel tempo stavano insieme, e lei continuava a fissarmi in quel modo mentre mi ascoltava, rapita. Quella stessa sera passammo da qualche “Tequila Bum Bum” in un pub, a discutere in completo accordo sulla filmografia di Quentin Tarantino, e in completo disaccordo sull’opera di Fellini, a ridere inebetiti dall’alcool per il nostro giochino scemo di trovare persone che assomigliano a cose, a rotolarci tra le coperte nel mio letto. Bruciammo la nostra passione come due animali selvatici per due anni e io fui l’uomo più felice del mondo, o almeno mi convinsi di esserlo. Fino a quando Antonio mi disse che scopavano.

Dopo che anche la più piccola maceria del mondo mi fu caduta addosso, lasciai la mia camera in quell’appartamento e andai a vivere con Giulia e Michele, una sassofonista e un trombettista che si facevano di speed. Cominciai a drogarmi seriamente e sperai vigliaccamente che la mia vita finisse presto perché non potevo sopportare quello strazio ancora a lungo. Mi riempivo di merda convinto che fosse un mio diritto, per annichilirmi, per alienarmi da un mondo cattivo oltre ogni ragionevole dubbio.

Nonostante l’acido regnante, abbandonai il Rock-Progressive a favore del Jazz, sotto il pesante corteggiamento di John Coltrane, Miles Davis, Gato Barbieri, Clifford Brown, che non solo i miei due nuovi compagni mi facevano ascoltare tutto il giorno, ma a volte venivano proprio a parlarmi di persona nei miei momenti di delirio. Formammo uno strano trio strumentale e per fortuna trovammo diversi locali che ci facevano suonare dal vivo. Avevo bisogno di suonare tanto per guadagnare i soldi necessari a comprare le dosi. Intanto dovevo esercitarmi duramente per adattare velocemente la mia tecnica di bassista elettrico al contrabbasso. Scambiai il mio telefono cellulare con un paio di scarpe comode, poco usate, perciò nessuno poteva più contattarmi e io cominciai a tendere all’isolamento assoluto.

Mi raccontarono che durante un concerto a ‘La Tana Dell’Orso” avevo lasciato cadere per terra il contrabbasso con un grosso tonfo, ed ero sceso dal palchetto per prendere a cazzotti una tizia che, durante un momento di distrazione del suo fidanzato, che era andato a ordinare due birre al bancone, era venuta ad infilarmi un bigliettino nel pacco; biglietto che non avevo letto nemmeno ma che arrecava il suo numero di telefono. Lei se la cavò con una frattura al naso e un occhio nero, io con una denuncia per aggressione e un contratto stracciato (anche se in realtà non c’era nessuna carta fisica da stracciare).

Dormivo poco o niente, la mattina mi svegliavo piangendo e non mi fidavo più di nessuno, nemmeno di mio padre. Lui voleva aiutarmi, poverino, e io lo maltrattavo al telefono, quando lo chiamavo da una cabina per chiedergli dei soldi. Avrei meritato di essere disconosciuto, ma per fortuna lui, almeno lui, non mi ha mai abbandonato. Tanta gente che ritenevo ‘amica’ sapeva come rintracciarmi, ma nessuno mosse un dito, a parte Michele che mi offriva qualche dose quando stavo proprio male e non si aspettava granchè in cambio. Mi accorsi che ero stato sempre io quello che chiamava i vecchi amici per sapere cosa stessero combinando e mi sentì definitivamente solo al mondo. Ma una sera il mondo si ricordò di me.

Ero uscito per comprarmi la cocaina e stavo camminando nei pressi di Piazza Braccio Fortebraccio, quando notai un bellissimo Pastore Tedesco che giocava a rincorrere una pallina da tennis e a riportarla alla sua padrona. O forse era una ragazza bellissima che giocava a lanciare una pallina da tennis al suo cagnone. Non ebbi troppo il tempo di starci a pensare, perché da non so dove sbucò fuori a tutta velocità uno scooter ed era proprio sulla traiettoria del cucciolo. Mi tuffai d’istinto sul cane con un gesto degno di un buon portiere di calcio e rotolammo insieme sul marciapiede. Io restai per un po’ sdraiato e piegato sul ginocchio che dovevo essermi sbriciolato nell’impatto e lui, non so se spaventato o divertito, prese a leccarmi la faccia e poi a scodinzolare con quella dannata pallina in bocca. Fu così che conobbi Angelica, quell’essere meraviglioso che la bestiola portava a spasso. Mi disse mille volte grazie, mi portò a casa sua per medicarmi le abrasioni, mi mise una confezione di minestrone surgelato sul ginocchio tumefatto e mi offrì da bere. Aveva un odore pazzesco e sorrideva sempre. La poltrona dove mi aveva fatto accomodare era tutta mordicchiata dal cane.

Quella sera lo spacciatore non mi vide arrivare e da lì in seguito non mi avrebbe mai più rivisto.

Il resto… il resto è fatto di musica, di astinenza, di sudore, di dolori terribili, del suo salottino accogliente, di quel divano che a volte purtroppo mi ha visto cagarmi addosso, dei suoi abbracci, delle sue parole di conforto e fiducia, di passeggiate in bicicletta.

Il resto è presente: io, Angelica, il cane Alfonso, il profumo di casa nostra, i miei scarabocchi, le jam-session, l’amore.

Adesso sono pulito, non sono più un tossico, ma a volte mi chiedo se non sia ancora, in qualche modo, ‘dipendente’.