venerdì, settembre 05, 2008

Pace forzata




Devo ammettere che questo posto ha il suo perchè di mattina.
Mi ritrovo quasi a scoprirlo per la prima volta, in questa lunga pausa di noiosa panchina. In 26 anni non ho mai notato questo spicchio di ombra nel bollore di un arido paese di mare.
La piazzetta centrale in fin dei conti non è altro che un marciapiede allargato, arredato da alti pini - garanti di frescura -, panchine e fontane. I gesti e i movimenti della gente hanno la calma e la lentezza del risveglio. Genitori e figli in villeggiatura mi passano davanti in bicicletta, con il quotidiano sottobraccio e i sacchetti della spesa appesi al manubrio. Il cielo è terso nei vuoti tra le fronde di pino, l'erba nelle aiuole scintilla annaffiata di fresco.
Qualcuno inzuppa una brioche nel cappuccino, qualcun altro si china per bere un sorso d'acqua alla fontana: la frenesia del "preserata" notturno sembra non essere mai appartenuta a questo posto.
Ora chiudo il quaderno e lascio che un libro dia un senso a questa pace forzata.

Castellaneta Marina, 10.36, 23 Agosto 2008

domenica, agosto 31, 2008

Diario di viaggio Berlino/Cracovia/Budapest/Praga 2008


Mi affido alle immagini

che il ricordo

sa suscitare.

28 Luglio-14 Agosto 2008

domenica, aprile 06, 2008

Dipendenze (Part II)(flashback: Love Can Damage Your Health)


Ogni riferimento a persone e luoghi esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.
(La prima parte del racconto è nel post che segue)



“Ciao Carlo, buonanotte.. e grazie per avermi dato una mano…”

“Ma figurati Stè, tu hai quel contrabbasso enorme da trasportare… e io solo il mio trombone. Cosa vuoi che sia farsi cinque piani di scale a piedi con in braccio un amplificatore? Mi servi tutto intero per il concerto al ‘Bottleneck’ della prossima settimana. Te l’ho detto [ansima]… ci sarà Venturi in sala… e quello ci può far entrare nei giri importanti! Riposati.”

“Ok Cà. Grazie. Buonanotte.”

[Carlo strizza un occhio e si allontana. Poi, mentre Stefano sta per aprire la porta del suo appartamento, Carlo si ferma e si volta di nuovo:]

“Stefano…”

“Si, dimmi.”

“Bravo. Complimenti. Volevo dirti che da quando sei ‘pulito’ sei davvero grande. I tuoi swing sono più affidabili… e il groove che hai adesso nei soli non ha paragoni col passato. Sono davvero contento per te. Sei davvero riuscito a liberarti da quella merda e si vede. E poi Angelica è pazza di te e sei felice. Siete felici, è bello vedervi… anche per un ‘vitellone’ come me!”

“Grazie Carlo. Adesso sono troppo stanco anche per arrossire. Grazie per aver creduto in me…e… basta, cazzo, mi stai facendo dire troppi ‘grazie’… brutto infame!”

Sorridono.

“Dai… presto troverai anche tu una sottospecie di femmina che ti sopporti fino a che la vecchiaia ti renderà ancora più sclerotico di adesso… e anche oltre. Quando la trovi te ne accorgi… e io me ne accorgerò su di te… forse smetterai di fumare come un nevrotico, CAZZONE!”

“Ahah… che gentile, grazie… buonanotte stronzo paraculo sfruttatore di forza lavoro!”

Il mio nome è Stefano Simonsson ed ho ventotto anni.

Ho un nome italiano perché i miei genitori vivevano già nel Salento quando sono nato. Mio padre Magnus, svedese, e mia madre Cristina, argentina, avevano deciso di unirsi ad una piccola comunità di parenti di mia madre quando i genitori di lei erano morti in un incidente.

Vivo a Perugia da dieci anni, da quando mi ci trasferii per frequentare l’università.

Strinsi subito una solida e bizzarra amicizia con Antonio, un pukabbestia di Matera che divideva con me l’appartamentino per studenti. Eravamo entrambi fissati col Rock-Progressive e lui, dopo due mesi di conoscenza, mi trovò un posto da bassista in una cover-band dei Pink Floyd. Antonio era iscritto alla Facoltà di Lingue Straniere, ma le uniche lingue che al momento conosceva erano quelle delle schifose che si portava in camera. Non faceva un cazzo tutto il giorno e si ammazzava di canne (e credo anche di seghe). Con lui mi feci la prima ‘tromba’ della mia vita e, nonostante non avessi mai fumato sigarette, diventai moderatamente dipendente dalla cannabis. Antò mi istruì riguardo alla localizzazione dei suoi pusher di fiducia, ma in realtà in quel periodo io stavo ancora bene e non comprai quasi mai il fumo, accontentandomi di scroccare ogni tanto l’erba buona dal mio coinquilino (infatti si sa che l’erba del vicino è sempre più buona…). La sera andavo alle prove del gruppo, di notte uscivo a bere per locali con Antò e la mattina arrivavo bello rincoglionito alle lezioni di Matematica.

Una di queste mattine, in una pausa-canna in cortile, conobbi Margherita. Non ricordo come fosse vestita, ma di sicuro portava una fascia multicolore per tenere insieme la sua montagna di capelli ricci castano scuro e una marea di piercing tra orecchie, naso, sopracciglio, labbra, lingua. Stavo sicuramente raccontando qualche episodio della vita di Charles Mingus a Giorgio e Piero, due miei compagni di corso che a quel tempo stavano insieme, e lei continuava a fissarmi in quel modo mentre mi ascoltava, rapita. Quella stessa sera passammo da qualche “Tequila Bum Bum” in un pub, a discutere in completo accordo sulla filmografia di Quentin Tarantino, e in completo disaccordo sull’opera di Fellini, a ridere inebetiti dall’alcool per il nostro giochino scemo di trovare persone che assomigliano a cose, a rotolarci tra le coperte nel mio letto. Bruciammo la nostra passione come due animali selvatici per due anni e io fui l’uomo più felice del mondo, o almeno mi convinsi di esserlo. Fino a quando Antonio mi disse che scopavano.

Dopo che anche la più piccola maceria del mondo mi fu caduta addosso, lasciai la mia camera in quell’appartamento e andai a vivere con Giulia e Michele, una sassofonista e un trombettista che si facevano di speed. Cominciai a drogarmi seriamente e sperai vigliaccamente che la mia vita finisse presto perché non potevo sopportare quello strazio ancora a lungo. Mi riempivo di merda convinto che fosse un mio diritto, per annichilirmi, per alienarmi da un mondo cattivo oltre ogni ragionevole dubbio.

Nonostante l’acido regnante, abbandonai il Rock-Progressive a favore del Jazz, sotto il pesante corteggiamento di John Coltrane, Miles Davis, Gato Barbieri, Clifford Brown, che non solo i miei due nuovi compagni mi facevano ascoltare tutto il giorno, ma a volte venivano proprio a parlarmi di persona nei miei momenti di delirio. Formammo uno strano trio strumentale e per fortuna trovammo diversi locali che ci facevano suonare dal vivo. Avevo bisogno di suonare tanto per guadagnare i soldi necessari a comprare le dosi. Intanto dovevo esercitarmi duramente per adattare velocemente la mia tecnica di bassista elettrico al contrabbasso. Scambiai il mio telefono cellulare con un paio di scarpe comode, poco usate, perciò nessuno poteva più contattarmi e io cominciai a tendere all’isolamento assoluto.

Mi raccontarono che durante un concerto a ‘La Tana Dell’Orso” avevo lasciato cadere per terra il contrabbasso con un grosso tonfo, ed ero sceso dal palchetto per prendere a cazzotti una tizia che, durante un momento di distrazione del suo fidanzato, che era andato a ordinare due birre al bancone, era venuta ad infilarmi un bigliettino nel pacco; biglietto che non avevo letto nemmeno ma che arrecava il suo numero di telefono. Lei se la cavò con una frattura al naso e un occhio nero, io con una denuncia per aggressione e un contratto stracciato (anche se in realtà non c’era nessuna carta fisica da stracciare).

Dormivo poco o niente, la mattina mi svegliavo piangendo e non mi fidavo più di nessuno, nemmeno di mio padre. Lui voleva aiutarmi, poverino, e io lo maltrattavo al telefono, quando lo chiamavo da una cabina per chiedergli dei soldi. Avrei meritato di essere disconosciuto, ma per fortuna lui, almeno lui, non mi ha mai abbandonato. Tanta gente che ritenevo ‘amica’ sapeva come rintracciarmi, ma nessuno mosse un dito, a parte Michele che mi offriva qualche dose quando stavo proprio male e non si aspettava granchè in cambio. Mi accorsi che ero stato sempre io quello che chiamava i vecchi amici per sapere cosa stessero combinando e mi sentì definitivamente solo al mondo. Ma una sera il mondo si ricordò di me.

Ero uscito per comprarmi la cocaina e stavo camminando nei pressi di Piazza Braccio Fortebraccio, quando notai un bellissimo Pastore Tedesco che giocava a rincorrere una pallina da tennis e a riportarla alla sua padrona. O forse era una ragazza bellissima che giocava a lanciare una pallina da tennis al suo cagnone. Non ebbi troppo il tempo di starci a pensare, perché da non so dove sbucò fuori a tutta velocità uno scooter ed era proprio sulla traiettoria del cucciolo. Mi tuffai d’istinto sul cane con un gesto degno di un buon portiere di calcio e rotolammo insieme sul marciapiede. Io restai per un po’ sdraiato e piegato sul ginocchio che dovevo essermi sbriciolato nell’impatto e lui, non so se spaventato o divertito, prese a leccarmi la faccia e poi a scodinzolare con quella dannata pallina in bocca. Fu così che conobbi Angelica, quell’essere meraviglioso che la bestiola portava a spasso. Mi disse mille volte grazie, mi portò a casa sua per medicarmi le abrasioni, mi mise una confezione di minestrone surgelato sul ginocchio tumefatto e mi offrì da bere. Aveva un odore pazzesco e sorrideva sempre. La poltrona dove mi aveva fatto accomodare era tutta mordicchiata dal cane.

Quella sera lo spacciatore non mi vide arrivare e da lì in seguito non mi avrebbe mai più rivisto.

Il resto… il resto è fatto di musica, di astinenza, di sudore, di dolori terribili, del suo salottino accogliente, di quel divano che a volte purtroppo mi ha visto cagarmi addosso, dei suoi abbracci, delle sue parole di conforto e fiducia, di passeggiate in bicicletta.

Il resto è presente: io, Angelica, il cane Alfonso, il profumo di casa nostra, i miei scarabocchi, le jam-session, l’amore.

Adesso sono pulito, non sono più un tossico, ma a volte mi chiedo se non sia ancora, in qualche modo, ‘dipendente’.

lunedì, marzo 17, 2008

Dipendenze (Parte I)


Ogni riferimento a persone e luoghi esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.


Che tu sia impiegato, operaio, studente, libero professionista, sai bene che dopo una giornata "pesante" non c'è niente di meglio che regalarsi un piccolo piacere della vita. Ma anche tanti...
Mi è piovuto in testa un temporale. Lancio distrattamente i vestiti su una sedia - bagno - una bella cagata liberatoria, con annessa una piacevole lettura. Gesti che, quando hai troppo tempo per te stesso, non sai più apprezzare. E poi il rito prevede una doccia calda, cantando qualcosa di frivolo (magari personalizzandone il testo). Ci sia asciuga al caldo accogliente della propria camera, si indossa qualcosa di esageratamente comodo. Ci starebbe bene della musica di sottofondo, ma stasera non mi va.
Per una volta mi voglio concedere una cena come si deve, e via con i piccoli piaceri della cucina. Sì che due omelette al prosciutto e mozzarella e un'insalata sono un piacere molto piccolo per un omone stanco a fine giornata, ma dovreste conoscere le mie insalate prima di affrettare un giudizio: insalata brasiliana, radicchio rosso, pomodori, mais, parmigiano in scaglie, maionese, mela verde, noci, un filo d'olio d'oliva, poco aceto balsamico e un pizzico di sale. Anche tutti questi colori sono importanti per soddisfare il corpo e la mente.
Mentre strappo una fetta di pane con le mani, ho in testa due brani che suonerò domani, ma continuo a confonderne i temi. A volte mi capita, accidenti! "Night And Day" e "Just Friends" sono i due pezzi incriminati di oggi. Ne inizio a cantare mentalmente uno, e subito, sugli stessi accordi, mi sovviene il tema dell'altro. Associando il mio cervello alla memoria di un PC, penso che forse mi servirebbe un bel defrag. E dire che per un bassista non dovrebbe essere un problema fare confusione sui temi di uno standard jazz, ma in passato mi è capitato di suonare "Yesterdays" invece che "Summer Time" oppure "Stella By Starlight" invece che "Beautiful Love". Riuscivo a recuperare in fretta i walkin', ma mi restava dentro uno sciocco straniamento per il fatto di sentire suonare un tema diverso da quello che mi ero immaginato in partenza.
Adesso spengo anche la musica, nel mio cervello, e sull'onda di un miraggio olfattivo, sballottato qua e là dal profumo del suo corpo, mi faccio una nuotata nell'idea della mia dipendenza da lei. E' come quando ti capita di avere per le mani qualcosa di tanto bello o che tanto hai desiderato, da non riuscire a credere che sia tuo davvero. "Tra un po' scopriranno di aver fatto un errore e me lo toglieranno" ti dici, mentre cerchi di usufruire di questa fortuna quanto più possibile prima che sia troppo tardi. Mi capita anche nei sogni e non so se sia comune a tutti (ma certamente lo è): se mi trovo in una situazione troppo paradossale, intuisco di essere in un sogno e riesco a svegliarmi volontariamente. Eppure l'odore forte di uova bruciate nella padella insieme a mozzarella abbrustolita mi ricordano che è tutto reale. Reale come il documento che devo consegnare domani al mio cliente domani mattina e che attualmente è al 60%. Reale come il dolore alla schiena che mi verrà trasportando giù per cinque piani di scale l'amplificatore del mio strumento, come i vaffanculo che si beccano l'ascensore, la società di manutenzione e il mio padrone di casa per l'ascensore rotto. E per l'aumento dell'affitto.
Rientro nel mio corpo e stacco la massa carbonizzata dalla padella antiaderente. Preparo un'altra omelette e sorrido ad uno scimpanzè di peluche, perchè lei non c'è stasera... ma domani ci sarà. E perchè i temporali non durano mai più di tanto.
(Fine 1° parte)

domenica, gennaio 20, 2008

Istantanea


http://cycling.ubiks.it/wp-content/uploads/2007/06/bici2.jpg


Cammina a piedi in direzione opposta a quella del traffico, spingendo la bicicletta con entrambe le mani. Cammina a passi lenti lungo il marciapiede, per evitare che gli automobilisti stanchi delle 13.30 le riversino addosso le proprie distratte ondate di stress. Piove senza sosta da quasi due settimane e il suo cappotto bagnato è grigio, il cielo uguale. Antonella odia gli ombrelli, anche se ‘odio’ non è il termine che lei userebbe. Antonella è incapace di odiare. In ogni modo i suoi capelli sono raccolti all’interno del basco che indossa. Il suo sorriso a labbra serrate accennato sul viso non lascia trapelare le parole della canzone ‘Singin In The Rain’ che sta canticchiando.

La vede, Davide, immerso col suo motocarro a tre ruote nel serpentone dell’ora di punta. Gli sboccia in volto un sorriso che è la copia perfetta di quello di lei. Nella sua mente si sta svolgendo una jam session sul tema ‘Autumn In New York’. Scuote distrattamente la sua salopette sdrucita e si convince della necessità di passarsi una mano tra i capelli spettinati; fa scivolare indice e pollice di una mano sui baffi in un gesto abituale. Poi schizza con destrezza fuori dall’intrico di auto nel lungo viale a senso unico e accosta a sinistra. Si guardano negli occhi mentre Davide le corre incontro; si stanno già parlando senza muovere le labbra paralizzate in quel sorriso complice. Lui afferra il manubrio della bicicletta con la mano sinistra e con la destra le cinge la vita, la stringe a sé. Le bocche si schiudono in un bacio al sapore di pioggia. Poi raggiungono il motocarro, lei entra e lui carica la bicicletta sul cassone posteriore. Mentre ripartono lui la fissa un po’, nel modo in cui si osserva un’opera d’arte, poi guardando dello specchio retrovisore: “Non ti avevo detto di aspettarmi a scuola?”

Antonella fa l’insegnante. E’ precaria. Quest’anno ha una classe di terza elementare. Lavora con passione e dedizione, riesce facilmente a conquistare la stima e l’affetto dei suoi allievi. Suonava il violoncello una volta, e ascolta tutta la musica del mondo. Adora i bambini, ridere, i dolci, le birre doppio malto, le fotografie, le cene divertenti con pochi amici, ballare a piedi nudi, i cinema vecchi di periferia, il mare in tempesta, le domeniche in campagna. Ama la vita e Davide. Antonella ama.

Davide sta per laurearsi in Storia Dell’Arte. Nel senso che gli mancano pochi esami da sostenere. Ma non ha fretta. Studia da dieci anni con i soldi che riesce a mettere da parte con la sua attività di falegname. Ha una bottega in un vicolo del centro storico. Ha molti clienti, anche importanti, perché lavora bene. A Davide riesce bene tutto ciò che fa perché fa tutto con amore. Progetta e assembla mobili e oggetti, scolpisce. Nel tempo libero dipinge e suona il clarinetto alle jam di tanto in tanto. Scrive racconti, e versi per Antonella. Una poesia al giorno. Nel suo laboratorio lo stereo è sempre acceso e riproduce la musica adatta ad ispirare di volta in volta l’opera da realizzare. Davide ama anche mentre dorme e dorme pochissimo. Davide ama Antonella.

(4 aprile 2007)

Zen thought in four rhymes (to G.)

L'immagine “http://www.orgsites.com/pa/generation-s/haring-keith-heart-of-figures-2100778.jpg” non può essere visualizzata poiché contiene degli errori.


It's not what I guess
life's such a mess
but it's like some kind of bless
that everyday you're the light of my happiness.

venerdì, ottobre 19, 2007

Blue In Green

Cheryl McClure, Blue/Green 16x16"




Ho nascosto la mia anima nel cassetto della biancheria intima,

perché nessuno venisse di nascosto a sottrarmela.

Così mi capita ogni tanto di andare lì e indossarla un attimo,

per vedere che effetto fa guardarsi dentro dal di fuori.


Era da tanto tempo che non lo facevo e la musica blu mi ci ha fatto pensare,

lei era ancora nello stesso posto, ben piegata ed inamidata.

Mi è scivolata addosso come un pigiama di seta (che mai ho avuto),

mi ha lasciato addosso i segni di un cilicio (che mai mi cingerà).




In ascolto: Miles Davis - Blue In Green

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martedì, agosto 28, 2007

Solito Insolito


"Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti presenti nel racconto che segue è puramente casuale"

"...l'umorismo ricomincia a pilotarmi per la città. Un' insegna verde-menta mi promette wiskey-bar, un juke-box sussurra: 'Uasciuariuà'..."

Merci Bocu, Sergio Caputo

‘Cosa le servo? Il solito?’ mi chiese Osvaldo, con la sua tipica cortesia.

‘No’ risposi io, con il mio tipico piglio laconico.

Un bar un po’ kitsch, come lo sono tutti i bar che non possiamo – obiettivamente – definire ‘un bel bar’. Con un’insegna luminosa molto appariscente, ma che più nessuno sembra notare nel traffico del giorno, piuttosto che nella libidine della notte, a parte i suoi singolari ‘aficionados’.

Un bancone ricamato di specchi, che si riflettono e si moltiplicano in una infinità di rombi opacizzati dal tempo e dall’oblio. Specchi ovunque, anche al soffitto, poltrone rosse e viola di gusto tutto gratuitamente anni ’80. Sgabelli alti, un televisore fissato su una mensola, in alto, tavolini bassi, il cesso in basso a destra guardando il jukebox. Un fantastico jukebox, ovviamente anni ’80, che suona solo Depeche Mode, Duran Duran, Level 42, Chic, Earth, Wind & Fire, Imagination, U2, UB40. Per dirne alcuni. Me lo studiai per bene una notte che avevo poco sonno e vi trovai addirittura ‘Io e Rino’ di Segio Caputo. Ripeto: fantastico.

Ma torniamo a Osvaldo, al suo bar kitsch e alla sua tipica cortesia. Osvaldo è un barista di 63 anni. Non ho detto ‘un uomo di 63 anni’: non ne ha più le sembianze. Soltanto un barista o un senatore della repubblica possono sfoggiare un riporto come il suo. Il che rende la sua tipica cortesia, il suo bar kitsch e la sua insegna blu elettrico ancora più pulp. Pulp è il tipico aggettivo che posso, e potevo, dare io col mio piglio laconico e il mio fare ironico. Ma, credetemi, non avrei mai potuto non pensare al capolavoro cinematografico di Tarantino osservando Osvaldo e il suo riporto che a volte danzava rapito dai vortici d’aria di un ventilatore a soffitto un po’ stanco. E il suo jukebox e le poltrone viola e nere e rosse. E il suo capoccione tondo come la sua pancia. E ancora la vecchia battona che disintegrava mozziconi di sigaretta in un minuscolo posacenere seduta sul suo culone enorme. E la puzza di rancido. C’era una bella fauna da Osvaldo e mi stavano simpatici un po’ tutti. Ci passavo a tutte le ore: per brioche e cappuccino, per un caffè, per un tramezzino, per una birra… o forse più d’una, per un buon rum. I personaggi erano un po’ sempre gli stessi ai diversi orari e così variopinti che potrei scriverne a lungo, ma non è questo il mio obiettivo. Vi stavo parlando del mio caro bar kitsch, del caro Osvaldo con la sua cortesia e del mio fare laconico e osservatore.

Però, a pensarci un attimo, proprio non posso omettere in questo mio racconto la descrizione di un personaggio assai pittoresco che ogni giorno faceva tappa fissa al bar. Alle 7.45 di ogni mattina Tommaso chiedeva una birra in bottiglia. ‘Una Raffo, Ossssvaldo! Bella fressssca eh!? e appoggiava i suoi spiccioli impilati sul bancone, quando poteva pagare. Ma no… se vi parlo di Tommaso, della sua s sibilante, dei suoi tic nervosi e del suo vagare senza meta, facciamo notte.

Vi stavo raccontando di quel bar pulp che frequentavo, del riporto del suo gestore Osvaldo e delle volte che andavo a sedermi e a osservare e a scrivere, col mio piglio deciso e sciupafemmine.

E beh si… come quella volta che mi persi la trasferta con la squadra di calcio per quelle due calabresi… oddio no.

Mi ci ubriacavo volentieri, in quel bar kitsch con l’insegna al neon blu e i ventilatori metallici a soffitto e quella lampada blu che stecchisce le zanzare appesa alla vetrina laterale. Mi ubriacavo da solo in quel posto quando c’erano dei motivi esistenziali, tipo problemi con le donne, o il dover guardare dalla tribuna le partite della mia squadra, o lo stress da esami universitari. Mescolavo la birra con altri alcolici e facevo dei lunghi soliloqui abbracciato alla tazza del cesso. Che bei tempi. Ma perché un alcolizzato è così affascinante? Poi invece con gli amici mi ubriacavo perché ero felice. O forse eravamo tristi ma non lo sapevamo. Compravamo la birra al supermercato o al deposito delle bevande e con le buste tintinnanti ci allontanavamo dal centro abitato a delirare sotto la luna e la via lattea. Immagini bucoliche che non posso rimuovere dalla memoria. Il bar di Osvaldo faceva schifo ai miei amici, perciò ci andavo soltanto da solo. Con loro andavo al pub irlandese e ci sfondavamo il fegato con litri di sidro. E a volte ci lanciavamo le freccette addosso. Erano bei tempi quelli. Quando poi di notte facevo tappa da Osvaldo prima di rincasare, lui mi fissava in volto e mi chiedeva, in dialetto pugliese: ‘Na bìrr, uagliò?’. Sapeva già che c’era qualcosa che mi teneva acceso il cervello e che mi rendeva irrequieto, e che non volevo altro che una birra scura, una doppio malto corposa e alcolica. Gli raccontavo qualcosa, con la testa tra le mani e i gomiti appoggiati al bancone, e lui ascoltava con pazienza, magari guardando con la coda dell’occhio una partita del Milan. Non diceva niente il più delle volte. Era questo che volevo, che non parlasse e che vegliasse su di me mentre non ero capace di intendere e di volere. A lui piaceva ascoltarmi perché parlavo bene in italiano, e quasi nessuno dei suoi clienti abituali lo faceva. Sorrideva alle mie stronzate e si passava di continuo un fazzoletto di stoffa sulla nuca e sulla fronte. Era un bel posto quel bar così kitsch, e oserei dire pulp, con l’insegna intermittente e gli specchi ovunque, gestito da Osvaldo con il suo riporto, il sorriso simile alla tastiera di un pianoforte e una simpatia cortese fatta di pesanti battute in dialetto, e tanta pazienza. Amavo anche quel tipo losco che non parlava mai e fissava una litografia di James Dean mentre si stuzzicava gli incisivi con una scheda telefonica. Indossava una t-shirt, era sempre la stessa, con la scritta: “Il mio cuore batte solo per le fettine di cavallo.” Una delle poche volte che mi trovai da quelle parti con un altro mezzo alcolizzato di amico, stavo parlando con questo di religione, cristi e madonne e tronchetti della felicità, e lui – senza proferir verbo- si sfilò la maglia e ci lasciò vedere il tatuaggio che gli occupava in pieno la schiena: la Vergine Maria e una scritta tutto intorno: “Madona protegimi”. Si, avete letto bene. Scoprii più tardi che glielo avevano tatuato in carcere.

Quando mi presentavo in compagnia di una donna Osvaldo mi prendeva un po’ in giro per fare il ruffiano e mi dava del lei, fingendosi eccessivamente servile. Mi chiedeva in italiano ‘Còsa le servo, il solito?’ e mi portava la solita Tennent’s con la solita cortesia.

‘No’ risposi io quella volta, spiazzando il panciuto e fedele amico, che restò immobile, basito e pensieroso.

‘Oggi voglio una bionda. Media. Anzi, bellissima.’ dissi, sorridendo alla splendida creatura che mi accompagnava, con un tono e una intenzionalità comica che sarebbe parsa kitsch soltanto fuori da quel bar. Fuori da quel mondo romantico, bucolico e pulp, con le sedie rotonde intrecciate in vimini, l’insegna al neon blu elettrico e la cappa da fumo di sigaretta.

‘Okkei’ disse lui con piglio laconico e guappo.

‘D’ora in poi chiederò solo bionde in questo incantevole bar di periferia’ dissi io con inspiegabile e raggiante cortesia.

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